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di Giusi Mainardi |
Mi ricordo che anni fa, mia nonna Ghitina (classe 1895) per
richiamare l'irruente voglia di azione di quando aveva vent'anni,
usava la frase: "Allora chiedevo se il mondo era da vendere".
Questo suonava a lei e a me come estremo paradosso. Restava qualcosa
di sospeso nel nostro immaginario, eravamo divertite e insieme
certe dell'impossibilità di una tal cosa.
Quanto ci sbagliavamo! Con il passare del tempo è diventato
sempre più chiaro il fatto che per molti il mondo è
davvero da vendere e da comprare.
Oggi è molto visibile l'imperversare di una diffusa mentalità
mercantilistica che di tutto fa "prodotto commerciale".
Anche il mondo del vino, la sua storia, le sue tradizioni, i suoi
paesaggi, la sua gente, si vedono stretti
dalla morsa dell'ossessionante triade: vendere, spendere, promozionare.
Quando questi tre verbi sono accompagnati alla parola "territorio"
ed alle sue varie implicazioni, l'effetto è veramente desolante.
Promozionare, in particolare, è urticante come i tentacoli
di una grossa medusa. Vuol dire lanciare sul mercato utilizzando
le tecniche della "promotion".
Promuovere sarebbe parola nostra, ma evidentemente suona troppo
domestica, poco moderna. L'inglesizzante promozionare fa molto
più "in".
In realtà questo verbo è l'espressione di tutta
una
filosofia (con iniziale meno che minuscola) che denota l'importazione
di tronfi, gonfi e luccicanti principi di marketing.
È brutta la parola, ma è brutto anche il concetto
che esprime. Un piccolo paese, una regione, una nazione si imbellettano
e si impacchettano a dovere, anche con qualche trucchetto, per
diventare prodotto spendibile, vendibile. Oh! Meraviglie della
"promotion"!
Mi sembra che un territorio possa essere molto più desiderabile
e attraente quando, anzichè essere speso, venduto, promozionato,
viene invece rispettato, curato, tenuto in considerazione, o (parola
grossa) amato.
È un po' come mettere a posto un grande cortile di una
casa di campagna, sistemare ogni cosa per bene, aggiustare ciò
che è rovinato, spazzare con cura, dare una mano di vernice
al cancello, mettere qualche fiore. Tutto questo non per la smania
di vendere la casa, ma perché quella è la nostra
casa, un luogo che vogliamo bello perché ci viviamo, perché
vi riceviamo le persone amiche, perché è il riflesso
del nostro vivere e del nostro pensare.
Non credo che porsi il mercato come fine primario sia una scelta
davvero vincente.
Prima o poi si percepisce che qualcosa suona vuoto, che la sostanza
è stata sostituita dall'apparenza.
Sarebbe molto sensato tutelare i paesaggi vitati perché
si è orgogliosi delle vigne, restaurare le opere d'arte
perché si è affascinati da ciò che rappresentano,
riscoprire e rinsaldare le tradizioni perché costituiscono
le nostre radici. Insomma avere voglia di conservare e di migliorare
le cose prima di tutto perché ci sono care.
Sarebbe dignitoso non voler trasformare il più possibile
di quanto ci circonda in prodotto da vendere, spendere, promozionare.
Lavorare e impegnarsi con sincerità, con interesse, con
passione, con affetto è molto più qualificante sia
nei rapporti con le persone che con il territorio.
Alla fin fine c'è un ritorno veramente appagante e il risultato
risulterà avvincente anche per la persona che sta dentro
l'enoturista.