di Moreno Soster |
Globalizzazione. È una parola entrata prepotentemente
nella nostra vita e di cui abbiamo concreta percezione ogni qualvolta
scorriamo lo sguardo sulla provenienza dei prodotti esposti nei
nostri mercati, o nella rapidità con cui possiamo raggiungere
un qualunque luogo del nostro pianeta, o ancora leggendo le risposte
ad un nostro quesito lanciato nei motori di ricerca della rete
Internet. Ma il villaggio globale, che la tecnologia e l'economia
stanno rendendo sempre più quotidiano, si deve confrontare
con il globo dei villaggi. Ossia con quell'immenso e variegato
insieme di interpretazioni della vita che chiamiamo cultura. E,
naturalmente, con le basi profonde della nostra esistenza che,
per i credenti, sono raccolte nei precetti religiosi.
Poter trasferire uomini, beni, servizi, denaro, in qualunque momento
e in qualunque luogo, ci fornisce una prospettiva sicuramente
entusiasmante per la quale, ho la sensazione, non siamo ancora
del tutto preparati da un punto di vista culturale. Certo l'uso
di lingue diverse è ancora una barriera che tuttavia sta
rapidamente scomparendo, stante l'uso ormai consolidato di lingue
di riferimento per settori specifici (si pensi all'inglese per
la ricerca scientifica e tecnologica) o per ampie aree continentali.
Piuttosto penso alle tradizioni, alla cultura, alle religioni
che impregnano la quotidianità delle genti del mondo e
sulle quali abbiamo ancora ampie lacune che troppo spesso mascheriamo
con posizioni preconcette o semplici luoghi comuni.
Uno spunto per ragionare su questi temi mi è stato offerto
da una tavola rotonda organizzata dall'amministrazione provinciale
di Torino sul rapporto tra religioni e alimentazione. Dal confronto
tra rappresentanti delle principali religioni monoteiste (cristianesimo
cattolico e protestante, islamismo, ebraismo) è emerso
un quadro di stupefacente ricchezza interpretativa che, a partire
da una radice comune, si è sviluppato in diverse declinazioni
del grado di libertà nel consumo degli alimenti, modulato
su diverse visioni del mondo, sui condizionamenti ambientali e
sociali, sulla prassi liturgica.
Nella Mezzaluna fertile (Vicino e Medio Oriente), culla di queste
tre religioni, si sviluppano le colture dei cereali, dell'olivo
e della vite che saranno i cardini della rivoluzione agricola
e forniranno la materia prima per il pane, l'olio e il vino alla
base dell'alimentazione delle popolazioni locali. Questi alimenti
altamente nutritivi e gradevoli al palato supereranno la loro
semplice funzione "fisiologica" per assumere un forte
significato simbolico del rapporto dell'uomo con la terra
l'agricoltore possiede la terra, il pastore usa la terra
ma anche dell'uomo con il cielo, con il divino. Diventa quindi
interessante comprendere il valore del comportamento alimentare
come segno di identità religiosa, etnica, culturale.
Soffermandoci sul vino, le religioni monoteiste sono concordi
nel considerarlo nella sua duplice immagine di elemento buono,
portatore di gioia, e di elemento cattivo, che trascina all'ubriachezza.
L'Islamismo vieta il consumo di vino, o meglio di alcol, proprio
per assicurarsi la sobrietà dei fedeli nell'esecuzione
delle funzioni religiose ma il Corano descrive giardini adorni
di vigneti, parla di pioggia che fa crescere la vite e dischiude
l'uva, promette fiumi di vino prelibato. Nell'uso ebraico il vino
rientra nella complessa disciplina in materia di cibi che, pur
con una graduazione dell'osservanza, impone che essi siano khosher
cioè adatti, convenienti. E quindi elaborati da personale
autorizzato, utilizzando idonei recipienti. Nel Cristianesimo,
nella Bibbia, il vino ha spesso assunto un ruolo centrale quale
metafora dello spirito così come la vigna ha rappresentato
la comunità o la chiesa. Questa centralità simbolica
del vino viene evidenziata nella santa cena o eucaristia. E a
dimostrazione dell'importanza che ha avuto questa bevanda per
la cristianità, esso è stato anche occasione di
divisione tra i tre principali rami del Cristianesimo. A partire
dal medioevo la chiesa cattolica romana ha per lungo tempo escluso
i laici dall'assunzione del vino nell'eucarestia.
Questa regola è stato rifiutata dai riformatori protestanti
del XVI secolo che hanno sostenuto la propria fedeltà ai
precetti biblici che prevedevano la cena con pane e vino. Analogamente
la chiesa ortodossa ha ribadito, nel suo scisma, la volontà
di officiare l'eucarestia con il pane lievitato immerso nel vino.
Sembra incredibile che una bevanda così comune come il
vino possa avere alimentato sviluppi concettuali tanto differenti
e possa assumere significati simbolici di identità e di
appartenenza tanto forti. Ma quello che volevo dire è che,
nel nostro tempo futuro, anche il semplice e conviviale gesto
di offrire un bicchiere di vino può essere inteso dal nostro
interlocutore in maniera profondamente diversa.
Il vino e i cibi sono un dono che riceviamo durante la nostra
vita, ma la percezione che ne abbiamo e l'uso che ne facciamo
dipendono dal delicato equilibrio tra la nostra responsabilità
personale e le regole della società cui apparteniamo.
Una società che oggi si sta rapidamente ampliando e in
cui le identità vengono messe in discussione. La comprensione
reciproca e "il dovere della differenza condivisa" sono
percorsi utili, anche soltanto parlando di vino, per una visione
non solo tecnologica o economica della globalizzazione.