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di Anna Schneider |
La variabilità genetica di una specie (la sua biodiversità,
come si usa dire oggi) è come noto costituita dall'insieme
delle varietà di quella specie più o meno estesamente
coltivate. Ma più precisamente essa è la somma di
due componenti, entrambe importanti in viticoltura: la diversità
tra una cultivar e l'altra, e la diversità all'interno
di ogni singola cultivar (o intra-varietale), formata nel caso
della vite dall'insieme dei genotipi appartenenti ad un certo
vitigno. Su queste pagine si è già scritto a proposito
della prima forma di biodiversità, ma anche la seconda
non è meno rilevante da un punto di vista tecnico-scientifico.
Essa sta infatti alla base della possibilità di effettuare
per un determinato vitigno una selezione genetica, scegliendo
e propagando solo alcuni esemplari con precise e desiderate caratteristiche,
e ottenendo da ciascuno una discendenza di piante (un clone) tra
loro geneticamente uguali.
Diversa è l'origine di queste due componenti di variabilità
genetica. Si ritiene infatti che la prima, nella maggior parte
dei casi, sia dovuta alla riproduzione sessuata e che una cultivar
sia derivata da una pianta capostipite originata da un seme, in
seguito propagata per via vegetativa. Questo è stato scientificamente
provato per molti vitigni tradizionali tra i più diffusi,
come il Cabernet sauvignon e lo Chardonnay. L'origine della variabilità
tra genotipi all'interno di una cultivar si deve invece essenzialmente
a mutazioni, cioè a modificazioni spontanee di porzioni
del genoma, che provocano variazioni più o meno lievi nella
morfologia e/o nella fisiologia della pianta, dando così
origine ad una vite un poco diversa da quella di partenza. Ai
viticoltori è ben noto che cloni differenti dello stesso
vitigno variano per capacità produttiva, per fenologia
o vigore, o ancora sono diversi per caratteri tecnologicamente
importanti come il grappolo più o meno compatto e l'acino
più o meno piccolo. La variabilità all'interno di
un vitigno dipende dunque da quante mutazioni più o meno
rilevanti sono avvenute nel corso del tempo nella popolazione
rappresentata dalla piante di quel vitigno: può essere
in certi casi elevata, in altri modesta.
Ma ciò che è importante considerare è che
la diffusione sul mercato vivaistico di pochi cloni selezionati
per ciascuna cultivar (scelta del resto tecnicamente ineccepibile)
porta all'inevitabile e rapida scomparsa di una importante e preziosa
fonte di variabilità genetica. Consapevoli del rischio
di questa profonda erosione, si cerca di conservare presso i costitutori
di materiale selezionato anche genotipi che al momento non sono
oggetto di selezione, realizzando in sostanza vigneti ricchi della
diversità dei cloni. In Francia un progetto nazionale ha
portato alla creazione, per ciascuno dei vitigni tradizionali,
di un vasto conservatoire di diversità genetica nell'ipotetica
zona di origine del vitigno. In Italia un progetto simile non
ha mai preso avvio. Ma occorre far presto, perché nel nostro
Paese l'uso ancora limitato di materiale clonale certificato e
il modesto ritmo di rinnovo degli impianti sta solo ritardando
un processo inevitabile.
E pensando a quanto possono essere efficaci tante piccole iniziative
in mancanza di grandi progetti dall'adeguato sostegno finanziario,
mi viene spontaneo suggerire ai viticoltori più sensibili
e attenti di propagare e conservare le viti più interessanti
o "diverse" di un loro vecchio vigneto destinato a scomparsa.
Non sarà difficile da parte di enti locali o nazionali
fornire ad essi un minimo di supporto tecnico, se non finanziario,
e nel contempo censire, raccogliere e mettere a disposizione informazioni
su tali attività. Un network, insomma, della diversità
clonale. Perché non ci si abbia a trovare tutti, in futuro,
più poveri.