di Moreno Soster |
Il castello si erge su un'altura dalla quale è ampio
l'orizzonte ed è possibile il controllo di gran parte del
territorio circostante. Le pietre scure ed affilate si elevano
in muraglie lisce e potenti, con le merlature difensive, le feritoie
a fessura, le torri incombenti. Il castello è la metafora
della strategia statica del controllo e della difesa.
Il canguro vive in grandi distese pianeggianti e deserte, è
attento ad ogni rumore e veloce a saltare via. Sa che la minima
distrazione ne può decretare la morte.
Nel nostro mondo vitivinicolo europeo l'immaginario evocato dal
castello è spesso utilizzato in connubio con la più
tradizionale produzione enologica: pensiamo alle enoteche italiane
collocate in castelli di diverse epoche, agli schloss tedeschi
o agli chateux francesi.
E simile ad un castello è la filosofia di fondo che governa
la viticoltura e l'enologia europea, agendo prevalentemente in
chiave difensiva e conservatrice, con regole pesanti come mura,
con un controllo minuzioso del territorio che ha una storia millenaria
e un impegno secolare di viticoltori, vinattieri, osti, enologi,
ricercatori che hanno selezionato nel tempo vitigni, zone vocate,
tecnologie, profumi e sapori. Un patrimonio enorme di ambienti,
di popoli, di cultura che occorre sicuramente tutelare al meglio.
Completamente diverso l'atteggiamento della viticoltura e dell'enologia
del cosiddetto Nuovo Mondo. Australia, Cile, Nuova Zelanda e,
in modo diverso, USA e Sudafrica, sono paesi enologicamente
parlando - giovani e dinamici. Come un canguro. Colgono l'aria
che tira, sanno di essere ancora deboli e fanno della velocità
la loro arma migliore. Non hanno nobili passati da mostrare ma
un mercato da conquistare, e si comportano di conseguenza. Se
l'Europa reagisce irrigidendosi su disciplinari di produzione
e contingentamento delle superfici, loro agiscono con organizzata
precisione: scelgono i vitigni europei migliori (prima hanno spaziato
con i francesi ma ora si affacciano agli italiani), affinano la
tecnica enologica, fanno pressing sul fronte commerciale sfruttando
una loro peculiare versatilità nell'uso dei mass-media;
insomma, fanno vini piacevoli a prezzi competitivi.
L'Europa ha dei costi maggiori perché l'evoluzione storica
e socio-economica del continente ci lascia una imprenditorialità
estremamente frammentata e una retribuzione- tutela del lavoro
fortunatamente assai diversa da quella riconosciuta in altre parti
del globo. In un bilancio complessivo però tutto questo
è ampiamente ripagato da una ricchezza di peculiarità
del vino europeo quali il legame con il territorio, la straordinaria
varietà tipologica, le infinite sfumature organolettiche
ma, soprattutto, le caratteristiche emozionali che raccolgono
in forma quasi impalpabile la cultura, la tradizione, la storia.
Spiegate opportunamente, e con garbo, queste sono cose che fanno
la differenza. Ritengo che l'Europa possa continuare a giocare
apertamente un ruolo di riferimento nel mercato globale del vino,
soprattutto se riuscirà a liberarsi dalle paure che la
vincolano ad atteggiamenti difensivistici ad oltranza e sarà
più fiduciosa sulla sua capacità di sviluppare idee
nuove a partire da un bagaglio di conoscenza ed esperienza enorme.
Questa assunzione di coraggio e di responsabilità deve
sicuramente passare attraverso una profonda revisione dei modi
con cui la viticoltura e l'enologia europea si propone. Va bene
basarsi sulla tradizione e sulle emozioni ma altrettanta attenzione
bisogna porre agli aspetti scientifici e tecnologici innovativi
della produzione, della commercializzazione e dei consumi che
consentano di proporre vini con un oggettivo legame con la tradizione
ed il territorio (da questo punto di vista le esperienze scientifiche
sulla zonazione vitivinicola non sono ancora del tutto soddisfacenti)
ma anche piacevoli e competitivi . Teniamo presente che i principali
Paesi importatori di vino (Germania, USA, Gran Bretagna, e si
affacciano ora i Paesi del Sud-Est asiatico) sono estremamente
sensibili a questo tipo di sollecitazioni: nella seconda metà
degli anni '90 il french paradox ha fortemente influenzato i consumi
di vino rosso su tutti i principali mercati di importazione.
Si tratta quindi di un'evoluzione culturale che i tradizionali
Paesi vitivinicoli dovrebbero percorrere anche a vantaggio di
tutta la viticoltura e l'enologia mondiale. In effetti il recente
e straordinario sviluppo delle "nuove" viticolture è
avvenuto attingendo ampiamente dal patrimonio di conoscenza della
tradizione europea accompagnato da un' implacabile adozione dei
propri punti di forza (aziende di grandi dimensioni, bassi costi
di produzione, normativa liberista, strategie commerciali evolute).
Vecchio e Nuovo mondo del vino continueranno a confrontarsi
e a copiarsi vicendevolmente per assicurarsi il solo mercato che
oggi hanno davanti, quello planetario.
L'importante è che questo avvenga su reali basi di crescita
culturale, tecnica e scientifica nonché su regole comuni,
chiare e condivise. Un cammino sicuramente impegnativo e stimolante
per i prossimi anni. Per ora sarei già contento di vedere
castelli meno arroccati o polverosi e canguri più "riflessivi".