L'ANGOLO DELLA VIGNA
di Anna Schneider

Il curioso successo dei "nuovi" vitigni

In fatto di scelta varietale, pur nella complessità delle situazioni e dei vincoli dovuti alle leggi, le preferenze dei vitivinicoltori italiani si possono ricondurre a tre indirizzi fondamentali. C’è chi punta ai vitigni internazionali, quelli di fama consolidata o emergenti, chi ha a cuore la rivalsa degli autoctoni importanti, come il Barbera, il Sangiovese o il Montepulciano, chi invece si dedica non senza difficoltà alla riproposta di vitigni locali minori, intuendone le potenzialità d’affermazione per originalità e legame con il territorio. Ma una quarta via sembra emergere in alcuni casi, meritando per lo meno qualche riflessione: riguarda le cultivar da vino ottenute da incrocio con metodi tradizionali di miglioramento genetico.
Si tratta per la verità di vitigni non particolarmente “nuovi”, perché la loro creazione risale a parecchi decenni or sono e precisamente al primo (o più raramente al secondo) dopoguerra, quando il dilagare dell’infezione fillosserica e la necessità di una razionale ricostituzione dei vigneti stimolò la pronta attività di alcuni genetisti italiani che lavorarono con successo all’ottenimento di portinnesti (Paulsen e Ruggeri), di uve da tavola (Pirovano, Prosperi, Bogni) e di uve da vino (Dalmasso, Terzi, Bruni, Manzoni, Rigotti). Per queste ultime siamo ovviamente ben lontani dall’eccezionale affermazione di alcuni ottenimenti da mensa, ma vi sono incroci che, curiosamente, cominciano ora a far parlare di sé, destando l’attenzione dei produttori e degli operatori.
Fra questi il Manzoni bianco (incrocio 1.0.13 Riesling renano X Pinot bianco), creato dal professor Manzoni nei primi anni ‘30.
Si tratta di un vitigno per la verità coltivato da qualche tempo in Veneto e Trentino, che solo più recenti sperimentazioni, condotte in area alpina e in molte altre regioni d’Italia grazie ad un progetto MIPAF, hanno fatto apprezzare per la spiccata adattabilità a vari ambienti colturali e per le positive caratteristiche, come il breve ciclo vegeto-produttivo, la produttività non eccessiva, la ricchezza in zuccheri e in acidità delle uve, la particolare aromaticità.
Sempre in Trentino sono state segnalate le potenzialità molto interessanti di un incrocio ad uva nera, derivato nel 1948 dal Merlot e dal locale Teroldego per opera di Rebo Rigotti, denominato Rebo, appunto, in onore del suo costitutore. Il Rebo ha caratteri fenologici simili a quelli del Merlot, produzione costante e minore sensibilità alle malattie, un vino molto ricco di colore e sostanze estrattive, di tonalità violacee accese e profumi eleganti.
In Piemonte oggetto di grandi aspettative è la nera Albarossa, un incrocio ottenuto dal professor Dalmasso nel 1938, eccezionalmente ricco di antociani e polifenoli, buon produttore e di maturazione medio-tardiva come il Barbera, genitore materno.
Ma perché tanto interesse nei confronti di “nuovi” incroci da vino quando la nostra Penisola è ricchissima di “vecchie” cultivar, qualcuna sicuramente promettente, che chiedono solo di essere riscoperte e riproposte?
La risposta sta proprio forse in quel “nuovo”, che implica un lavoro scientifico e razionale di selezione, tra i tanti ottenimenti, di quello meglio rispondente ad un obiettivo di qualità.
Un criterio che poco si è accompagnato nel tempo alla scelta delle cultivar locali, le cui ragioni di selezione (o meglio sopravvivenza) sono state spesso ben lontane da quest’obiettivo.
Un’altra ragione è da ricercarsi proprio nell’origine di questi nuovi ottenimenti quando derivati da genitori storici, rinomati e tradizionalmente affermati in un certo territorio.
L’Albarossa visto come un Barbera migliorato, insomma, ma con alle spalle tutta la storia e la tradizione del più amato tra i vitigni piemontesi.
Qualcosa di nuovo e originale, geneticamente superiore o per lo meno tecnicamente interessante, legato in qualche modo alla tradizione locale: segreto appeal del connubio tradizione- innovazione.