L'ANGOLO DELLA VIGNA
di Anna Schneider

 

A proposito di nomenclatura delle cultivar di vite

Attorno al problema delle regole di denominazione dei vitigni si è avuto negli ultimi mesi un certo fermento: la comunità scientifica nazionale si è riunita un paio di volte nell’ultimo semestre per discutere la proposta di rivedere i criteri con cui vengono definite le cultivar di vite.
L’argomento può parere riservato ad “addetti ai lavori”, ma, riguardando la designazione dei vitigni, ha in realtà un forte impatto sul mondo produttivo.
Già in sede internazionale non sono mancate negli ultimi anni occasioni di dibattito sulla questione, nell’intento di adattare alla vite regole utilizzate per altre specie coltivate. Novità degli ultimi tempi è il contributo offerto dall’analisi del DNA, che comincia a permettere di approfondire le conoscenze sull’origine ed i rapporti filogenetici tra cultivar, aspetti che un tempo erano oggetto di ipotesi non dimostrabili. Anche la valorizzazione e la riproposta in coltura e sul mercato di vitigni minori salvati dall’oblio o di nuovi vitigni di recente ottenimento può presentare spesso problematiche legate alla loro denominazione.
Vediamo dunque di analizzarne qualche aspetto, senza dimenticare che le varietà coltivate di vite hanno generalmente origine da un semenzale, un’unica pianta da cui derivano per propagazione le numerose viti che appartengono a quella cultivar. Com’è noto il semenzale può essere derivato da un incrocio spontaneo (ed è questa l’origine della maggior parte dei vitigni da vino) oppure da un incrocio deliberato nell’ambito di programmi di miglioramento genetico.
Alla base dell’incrocio vi sono due distinti genitori, ma un semenzale si può ottenere anche per autofecondazione di una pianta. Sia nell’uno che nell’altro caso, tuttavia, la ricombinazione dei caratteri che si ha nel caso di riproduzione sessuata porta ad avere un discendente magari simile nel fenotipo ai genitori (o al genitore) ma diverso geneticamente.
Profilo genetico invece molto simile tra loro mostrano le cultivar che hanno avuto origine dalla mutazione anche solo di un carattere, ma tanto importante (come ad esempio il colore dell’uva, la presenza di aromi particolari nella bacca, ecc.) da farle considerare a tutti gli effetti vitigni distinti.
Quanto detto è stato chiarito in tempi recenti grazie al contributo della genetica molecolare: mentre qualche decennio fa si riteneva che all’interno di una cultivar coesistessero sovente piante derivate da più individui capostipiti, magari imparentati tra loro o originati per autofecondazione, oggi si sa che questa situazione è estremamente rara, fino ad ora dimostrata per qualche vitigno soltanto tra cui la Fortana ed il Prosecco. La maggior parte delle attuali cultivar, in sostanza, deriva da un unico semenzale e pertanto tutte le piante che vi appartengono hanno uno stesso profilo genetico.
Che cosa questo ha a che fare con la nomenclatura delle cultivar di vite? Da parte di alcuni, con l’intento di mantenere una classificazione più “naturale”, è stata avanzata la proposta di designare con un’unica denominazione forme probabilmente imparentate, magari simili nel fenotipo ma derivate da semenzali diversi ottenuti per allofecondazione o autofecondazione, e quindi diverse nel profilo genetico. L’opinione dei più, invece, anche in virtù dell’attuale possibilità di analizzarne il DNA, è quella di mantenere ben separate queste forme come cultivar distinte, anche se i viticoltori le avevano in certi casi accomunate: il Prosecco lungo è stato ufficialmente registrato come vitigno diverso dal Prosecco (ad acino rotondo) e come tale inserito nei disciplinari di produzione.
Un tale rigore nella classificazione, che mi sento di condividere, trova ragione negli sforzi, tuttora imprescindibili, compiuti con gli studi di genetica e di ampelografia fin dagli albori di tale disciplina, orientati a riconoscere e distinguere in modo appropriato le cultivar di vite. Un’altra ragione è la preoccupazione di rischiare d’inserire in una stessa varietà non solo forme geneticamente vicine, dunque in qualche modo simili nell’aspetto e nel comportamento, ma anche piante del tutto distinte a seguito dell’errata denominazione da parte dei viticoltori. Chi ha esperienza di indagini di campo sa bene quanti sbagli e confusioni siano frequenti, specialmente nei vecchi vigneti sovente polivarietali.
Per fare un esempio, ci siamo imbattuti sulle colline piemontesi in “biotipi” di Moscato bianco (così erano stati definiti dai viticoltori) particolarmente resistenti al marciume, rivelatisi in realtà Moscato giallo.