di Moreno Soster
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“Vino hollywoodiano. Ecco alcune delle sue caratteristiche:
colore bellissimo, gradazione abbastanza spinta (se uno
viene dal superalcolico, del dolcetto non sa che farsene),
gusto rotondo, molto semplice, senza spigoli (senza tannini
fastidiosi né acidità difficili da domare) al primo sorso c’è
già tutto: da la sensazione di ricchezza immediata, di pienezza
di gusto e profumo; quando l’hai bevuto, la scia dura
poco, gli effetti si spengono; interferisce poco con il cibo..; è
fatto con uve che si possono coltivare quasi ovunque. Dato
che è manipolato senza troppi timori reverenziali, ha una
personalità piuttosto costante, rispetto alla quale la differenza
tra le annate diventa quasi trascurabile. Voilà”.
È questa la descrizione
che lo scrittore Alessandro
Baricco fa, nel suo libro a
puntate “I Barbari”, dei
vini prodotti dalle nuove
viticolture sviluppatesi
negli ultimi quaranta anni.
Un percorso di rinnovamento
partito dagli Stati
Uniti che ha influenzato le
enologie di altri Paesi
extraeuropei (Australia,
Cile, Sud Africa, Nuova
Zelanda).
Occorre dire che il tema
è sviluppato in maniera
molto approfondita e piuttosto
originale e mi sembra
interessante riflettere su
alcune sue considerazioni
circa l’avvento dei vini
“hollywoodiani”.
Tra i punti di forza di
questa nuova visione del
vino c’è la semplificazione, che è quella di cercare di avvicinare
al vino il maggior numero di consumatori attraverso
una minore complessità delle sensazioni organolettiche
oppure diffondendo alcune sensazioni tendenzialmente
facili (possiamo pensare alla vaniglia o al legno dei passaggi
in barrique oppure alle note dolci che prevalgono su tannini
e acidità?).
All’interno di questa semplificazione passa anche l’uso
di vitigni sostanzialmente uguali in tutto il mondo che permettono
una standardizzazione della loro specifica enologia
varietale.
Una enologia tecnicamente molto avanzata e disinvolta
che punta maggiormente a reinventare ogni volta il prodotto
piuttosto che a mantenere al vino i caratteri di una tipicità.
A questo si affianca una grande capacità di investimento
sul fronte commerciale sia in termini organizzativi sia, ed
è un aspetto importante, in termini di comunicazione e di
marketing.
Molto schematicamente si può dire che i vini delle nuove
viticolture extraeuropee hanno semplificato il prodotto,
ammorbidendone le sensazioni con un’enologia creativa e
sostenendolo con una moderna comunicazione.
Ma il loro punto di partenza sono stati i vini europei di
cui hanno colto i principali aspetti limitanti per tradurli in
elementi di forza mediante una piccola rivoluzione culturale:
non è il consumatore che si deve adattare al vino che è
frutto di quel territorio e di quella tradizione enologica, ma
il contrario.
Non si può certo tacere che questa impostazione di pensiero
è favorita quando si gode di grande libertà di impresae la propria storia si raccoglie in un pugno di secoli.
Tutto questo per giungere a qualche riflessione sugli
effetti di questa piccola rivoluzione anche sulle nostre viticolture,
possibilmente pensando in modo positivo e limitandoci
ad un piano puramente ideale, culturale, lasciando
alla politica le scelte di mediazione della nuova OCM.
Sicuramente i vini europei devono recuperare una capacità
di “dialogo” con i propri consumatori tenendo conto
delle mutate condizioni di consumo: gli enologi americani
hanno pensato un vino da fuori pasto, o da pasti semplificati,
facendo riferimento ad un’abitudine di consumo che è
tipicamente anglosassone; gli enologi europei dovrebbero
pensare a vini da consumare durante il pasto che in Europa
ha ancora una funzione sociale importante ed è ancorato ad
una solida tradizione gastronomica.
Questo permetterebbe di valorizzare la complessità dell’offerta
di vini europei (in termini di vitigno, di tradizione
enologica locale, di profilo sensoriale) adattabili ad una
pluralità di abbinamenti gastronomici. Al tempo stesso non
è possibile ed opportuno percorrere solamente la strada del
prodotto di nicchia, che consente elevate gratificazioni ma
apre spazi commerciali ristretti.
Analogamente si deve ripensare alle modalità di proposta
dei vini europei, attraverso nuove forme di confezionamento
(abbigliaggio più sobrio, volumi minori).
Il confronto con i vini hollywoodiani ci permette di comprendere
meglio l’effettiva potenzialità dei nostri vini che
possono contare su una base di vitigni diversificata nella
quale è possibile attingere per la costruzione di infinite sfumature
sensoriali da contrapporre alla semplificazione forzosa,
in più questi vitigni sono legati a ben precise realtà
territoriali e, spesso, non riescono ad adattarsi ad una pluralità
di ambienti.
Una specificità viticola legata ad un territorio che esprime
anche contenuti paesaggistici (pensiamo alle colline di
vigneti) e culturali (storia, leggende ma anche castelli e borghi)
che non possono essere utilizzati in forma ripetitiva ma
reinterpretati ogni volta secondo l’evoluzione della percezione
dei consumatori e gli sviluppi della comunicazione.
In fondo la differenza tra vini hollywoodiani e vini europei
si manifesta, secondo me, soprattutto nella loro potenzialità:
i primi hanno sfruttato pienamente gli elementi del
proprio sistema vitivinicolo (o modello economico, in senso
lato) ma li stanno esaurendo rapidamente; i secondi possono
contare su un patrimonio di vitigni, di aree viticole, di
storia e di tradizioni praticamente infinito, che tuttavia non
si deve cristallizzare ma deve essere reinterpretato alla luce
dei cambiamenti radicali dei consumatori moderni in termini
di occasioni di consumo, di attenzione al prodotto ed alle
modalità con cui il vino è proposto e comunicato.