UNA INTERVISTA A...

Michele Chiarlo

Era il 1955, quando Michele Chiarlo, appena diplomato alla “Scuola di Alba”, iniziò a lavorare come enotecnico prima in una ditta di Canelli, poi alla Cantina Sociale di San Giorgio Monferrato. Quasi subito queste situazioni gli andarono strette e già nel 1956 decise di intraprendere la strada di imprenditore, avviando con la sorella una attività di imbottigliamento a Susa e contemporaneamente cominciando ad occuparsi della cascina e dei vigneti di famiglia a Calamandrana, sulle colline astigiane.
Iniziò con la produzione di Barbera e di Moscato. Gli anni ’60 non erano tempi molto esaltanti per il vino piemontese. Erano rarissimi i produttori che imbottigliavano e il Barbera aveva un’immagine che non consentiva prezzi elevati, nemmeno di fronte a livelli superiori di qualità.
Per progettare una seria affermazione bisognava allargarsi, arricchire la gamma della produzione con vini rappresentativi per i quali il mercato aveva una maggiore attenzione ed era più disposto a pagare: Barolo, Barbaresco, Gavi. Era anche necessario non limitarsi a mercati ristretti, chiusi e logori, ma affacciarsi fuori dei confini nazionali per conquistare nuovi spazi. Anche all’estero tuttavia la situazione non era incoraggiante. C’era tanto lavoro da fare, la conoscenza del vino italiano era ancora tutta da costruire.
Uscire dall’Italia era necessario non solo per trovare altri mercati, ma anche per capire cosa facevano le altre nazioni nell’ambito del vino, in particolare la Francia, un modello di successo. Fu così che sul finire degli Anni 60 iniziò la passione di Michele Chiarlo per la Borgogna. Visitò le cantine, seguì la vinificazione del Pinot noir, cercò approfondimenti con Jean Siegrist dell’INRA di Beaune. Rimase estremamente impressionato dalla gestione della fermentazione malolattica sul Pinot noir e a partire dal 1970 decise di applicarla al Barbera, ottenendo risultati che furono molto importanti per il miglioramento qualitativo e di immagine che iniziò a portare questo vino alla ribalta.
Osservare, confrontarsi, capire e costruire, strutturando la propria azienda su canoni qualitativi e commerciali sempre più alti ed efficaci, fu questa la chiave che aprì le porte del successo a Michele Chiarlo. L’aspirazione all’eccellenza lo portò ad acquisire vigneti nei crus più prestigiosi del Barolo e del Barbaresco, sulle colline più vocate del Barbera d’Asti, del Moscato, del Gavi. Oggi l’azienda dispone di 110 ettari, dei quali 50 di proprietà, e 60 gestiti con la supervisione del figlio Stefano, enologo diplomato ad Alba, entrato in azienda nel 1992.
La “Michele Chiarlo”, con cantine a Calamandrana, Barolo e Gavi, produce più di un milione di bottiglie ed è presente con i suoi vini su 60 mercati internazionali, segnalandosi come leader nei più importanti ed ottenendo altissima considerazione da parte della stampa specializzata italiana e delle più prestigiose testate internazionali.
Dal 1998, Alberto, l’altro figlio di Michele, laureato in Giurisprodenza, è stato nominato direttore vendite export e direttore marketing.
Estimatore ed amico di mitici protagonisti della produzione d’eccellenza di tutto il mondo, Michele Chiarlo è anche un appassionato di arte ed ha realizzato a Castelnuouvo Calcea, nel podere La Court, su colline di grande Barbera, il Parco Artistico “Orme su La Court”. Vi hanno collaborato Lele Luzzati e altri importanti artisti. La direzione artistica del Parco è affidata a Giancarlo Ferraris, pittore, incisore, illustratore, grafico, docente di Discipline pittoriche che è anche il geniale artefice della rivoluzione grafica che ha portato l’arte sulle etichette di questa cantina.
Abbiamo incontrato Michele Chiarlo, membro del Consiglio dell’OICCE, per capire l’anima dei suoi vini e la filosofia che ne ha determinato e ne determina un così grande successo.


Come ha organizzato l’espansione e la scelta dei vigneti?
La mia aspirazione è stata sempre quella di individuare e di acquisire vigneti posti in zone ad alta vocazione. Per realizzarla è stato necessario un lavoro costante, paziente. Bisognava osservare, valutare e una volta trovata l’area giusta, portare avanti i contatti per l’acquisto. In molti casi le trattative sono durate anni.
La prima acquisizione storica è stata, nel 1988, il podere dei conti Averame, a Cerequio, prestigioso cru del Barolo, nel comune di La Morra. Fu una grande soddisfazione: erano 6 ettari di vite, sui 16 che compongono questo cru. Un’altra mia ambizione era quella di possedere un vigneto ai Cannubi, grandissimo e storico cru nel comune di Barolo. Sapevo che era un’impresa molto dura. Al centro della collina c’era un vigneto di quasi due ettari, difficilissimo da gestire per la pendenza che sfiorava il 50%. Riuscii a comprarlo e nel 1989, con la consuleza di François Mourisier, professore svizzero di Viticoltura, esperto della sistemazione a terrazze senza sostegni in muratura, realizzammo il primo vigneto di questo tipo in Langa.
Occorsero anni anche per convincere il proprietario della Tenuta Aluffi di Castelnuovo Calcea. Erano 30 bellissimi ettari davvero speciali per il Barbera. Dopo infinite discussioni, firmammo il contratto il giorno dopo Ferragosto del 1995. In questa tenuta c’è il Podere La Court, che dà origine al cru omonimo.
Sempre con tenacia e pazienza acquistai ancora a Castelnuovo Calcea il podere Montemareto, la Costa delle Monache ad Agliano Terme e La Serra a Montaldo Scarampi, dove abbiamo impiantato il vitigno Albarossa, incrocio realizzato negli anni ’30 dal professor Dalmasso.
Solo per la zona di Montaldo Scarampi ho trattato l’acquisto con ben 18 proprietari…


Come trasferite nel vino le tipiche caratteristiche varietali del vitigno e del terroir?
È un bagaglio preziosissimo quello che portano l’uva e il terroir di provenienza. Teniamo molto a conservare integre le caratteristiche qualitative che ne derivano. La pigatura è fatta con sistemi soffici, le fermentazioni avvengono a temperatura controllata e programmata per ogni vino, l’estrazione degli antociani e dei polifenoli delle uve a bacca nera si realizza con un sistema molto delicato, bagnando con il mosto le bucce tramite innaffiatori rotativi automatizzati.


Quali sono gli interventi più innovativi effettuati sui vostri vini bianchi?
Direi quello adottato per il Gavi, la macerazione a freddo diuna parte delle uve Cortese prima della pressatura per favorire una più spiccata e delicata estrazione dei profumi.


Qual è la vostra posizione nell’utilizzo del legno per i vini rossi?
La scelta del legno, della capacità e dell’età delle botti impiegate, tutte in rovere francese, è fondamentale. Siamo convinti che il legno sia un “coadiuvante” prezioso, ma che non debba mai essere preponderante. Usiamo tini in rovere per la fermentazione di vini rossi di grande pregio e botti di diverse misure per l’affinamento. Ad esempio per Montemareto usiamo botti da 225 litri, e per il 50% le impieghiamo anche per il Barbera d’Asti La Court, mentre la restante metà si affina nei tini di fermentazione. Per i crus di Barolo e Barbaresco impieghiamo botti da 700 litri. Per Barolo e Barbaresco classici, Barbera d’Asti Cipressi della Court, Le Orme usiamo botti da 5000 litri. Inoltre, per mantenere integri il bouquet e la ricchezza gustativa, tutti i nostri vini rossi di alta gamma, come Barolo, Barbaresco e relativi cru, Barbera d’Asti La Court, Montemareto, vengono imbottigliati senza preventiva filtrazione.


Quali sono oggi i cardini del marketing enologico?
Bisogna far capire che l’Italia produce vini di grande pregio. Per trasmettere questa immagine è necessario unirsi, avere più forza. È quanto abbiamo fatto con la costituzione dell’ “Istituto del vino italiano di qualità – Grandi marchi” formato da 18 prestigiosi produttori di diverse regioni italiane, caratterizzati da alti livelli qualitativi e celebri marchi. Ci si presenta insieme sui mercati stranieri per fare azioni di informazione verso la stampa, gli opinion leader, il trade, ma anche per dare opportunità di formazione al personale che dovrà proporre e servire il vino italiano.
Dal punto di vista del marketing aziendale è anche molto importante la presenza diretta del produttore e il rapporto continuativo con i mercati.


Che cosa ha ispirato la creazione del parco artistico “Orme su la Court”?
Abbiamo voluto fondere l’arte e i vigneti, creando un inedito percorso tra i filari che si snodano fra le cascine Castello e La Court nel nostro podere di Castelnuovo Calcea. Lele Luzzati e diversi artisti hanno creato sculture e scenografie in movimento ispirate al tema dei quattro elementi: aria, acqua, terra e fuoco. Balthasar, Carbone e Roggero Fossati hanno scolpito delle originali “teste segnapalo”, formetotem collocate sui pali di inizio filare. Il cuore del Parco artistico viticolo del Barbera è la torretta di mattoni vecchi dell’osservatorio da dove si ha una vista stupenda su vigne, colline, paesi circostanti e dove sono presentate molte informazioni sul vitigno e la sua coltivazione.
Il parco, con spazi dedicati ad esposizioni e degustazioni, è costantemente sede di eventi culturali che uniscono il vino all’arte, alla lettaratura, alla musica, allo sport, alle tradizioni e ai grandi uomini piemontesi.

DIETRO LE QUINTE...

Cosa ha significato per lei l’incontro con l’artista Giancarlo Ferraris?
Un’intesa perfetta e una grande sfida che abbiamo affrontato per comunicare il vino in modo nuovo, facendo parlare l’etichetta ed esprimendo attraverso questa le emozioni e le mille sfaccettature del vino, dei suoi caratteri, dei suoi paesaggi.

Fra le impressioni nate nei suoi innumerevoli viaggi ce n’è qualcuna che ricorda particolarmente?
Una fra moltissime. Nei primi anni ’50, da giovanissimo enotecnico, andai con degli amici all’asta dei vini dell’Hospice di Beaune. Rimanemmo impressionati dall’evento e soprattutto dalle signore eleganti della buona società che andavano a comprarsi la pochette e il bicchiere per le degustazioni. In Italia non avevamo visto niente del genere, e per le donne bere e apprezzare apertamente il vino era allora praticamente tabù.


Cosa le è rimasto più impresso degli insegnamenti di suo padre in merito al vino e cosa con l’esperienza ha potuto aggiungere e trasmettere ai suoi figli?
Mio padre mi ha insegnato che bisogna mantenere sempre il senso della misura e che la maggiore ricchezza è quella di essere degno della fiducia che le persone ripongono in te. Questo voglio trasmettere ai miei figli, insieme all’invito a non abbandonare mai l’umiltà, anche in posizioni di grande affermazione e prestigio.