L'ANGOLO DELLA VIGNA
Per un’estetica dei vitigni |
Mi è stato chiesto qualche mese fa di descrivere l’aspetto di
qualche vitigno, soprattutto raccontando quali soddisfacevano
in qualche modo il mio senso estetico e per quale ragione.
Mentre mi lanciavo, del tutto a ruota libera, nella descrizione
della fisionomia dei miei preferiti, evocandola alla memoria,
mi resi conto che le molteplici facce di questa diversità non
solo avevano un valore estetico ben preciso, per quanto soggettivo,
ma che potevano condizionare, talora disegnare,
dipingere un paesaggio.
Il paesaggio in questione è ovviamente quello delle zone
viticole, dove i vigneti ricoprono più o meno intensamente
colli e pendii. Il paesaggio, insomma, che chi si occupa di vite
e di vino si ritrova intorno,
ma che forse non ha mai
guardato con l’occhio attento
al tocco personale che
ciascun vitigno reca. Chi ha
colto la poesia dei riflessi
d’oro del Barbera a primavera,
del bronzo del
Moscato, o dei viola e dei
gialli del Dolcetto e del
Nebbiolo in autunno?
Vogliamo percorre
insieme qualche vigneto, ma
concentrati questa volta
sulla fisionomia dei vitigni?
Vogliamo osservare il modo
che hanno di porsi, nel loro
insieme di foglie e foglioline,
germogli, viticci, grappoli? Siamo pronti ad azzardare
qualche giudizio estetico o funzionale?
Che ne dite ad esempio del Barbera, in verità uno dei miei
preferiti? Pittoresco in primavera, con quel portamento molle
e un po’ lascivo dei tralci, che si aprono e si stendono sui filari,
illumina le colline con un riflesso d’oro appena ramato,
proprio perché le sue giovanissime foglie, se le guardate
bene, hanno il giallo dorato del prezioso metallo.
Un po’ più in là nella stagione il suo aspetto diventa arruffato,
per via di quelle innumerevoli gemme latenti che sul
legno vecchio danno origine ad altrettanti germogli, che non
ce la fanno a star cheti e si lanciano nell’avventura della crescita.
Ma se i germogli, molli e deboli, non si reggono da soli, ci
pensano i viticci a far questo servizio: una peste per chi palizza,
pota, stralcia, tanto si avvinghiano ai fili, ai sostegni, agli
altri tralci!
Tutt’altra musica con i Pinot: viticci esili e tralci rigidi,
impettiti, come pure le foglie, che mancano della sottile tenerezza
del Barbera. E i grappoli? Piccoli e compatti, fanno un
tonfo secco e deciso quando cadono nella cesta, tanto son
densi di acini piccoli e vicini: delle pigne? O dei piccoli pugni
chiusi e arrabbiati.
Il Nebbiolo è dirompente, con quei suoi tralci che vogliono
arrivare sempre più in alto degli altri, fino a quando la
cimatrice non li mette in riga. Il Dolcetto è modesto nello sviluppo:
quasi defilato, sembra che voglia stupirti tutto a un
tratto con la dimensione
spropositata di certi suoi
grappoloni che compaiono
più in là nella stagione. Ma il
suo punto di forza estetico,
a parer mio, sta nel riflesso
quasi bluastro e metallico
delle sue foglie lucenti, e
nelle nervature tutte color
del vino.
Il Sangiovese è gentile,
con i germogli ben dritti a
primavera, di un verde tenero
appena dorato; il suo
conterraneo Trebbiano,
invece, non si fa vedere: è il
più pigro a germogliare e
mentre tutti gli altri han già
tralci che si dondolano al vento lui fa appena spuntare le
prime foglioline bianchicce. Ma poi si rifà e i suoi germogli
sembra voglian raggiungere il diametro della zappa: non dondolano
affatto e crac, semmai si spezzano alla base.
Il Cabernet sauvignon, quasi onnipresente, se ne sta un
po’ sulle sue: è ben disciplinato, proprio come un soldato
ritto al suo posto, con gambali grossi e imponenti (per via del
diametro esagerato dei ceppi): la sua leggiadria sta nelle
foglie, in cui tutto è rotondo e aggraziato: la forma, i denti, i
seni che son piccoli cerchi perfetti.
Qui mi fermo, con l’augurio che a qualcuno sia venuta la
curiosità di guardare nella prossima primavera il proprio paesaggio
di viti, cogliendovi il significato estetico o funzionale
delle viti stesse. E lasciandosi stupire dalla bellezza della
diversità.