L'OPINIONE DEL PRESIDENTE
di Moreno Soster

WINE MOVIES

 

Nell’aria risuona ancora il cigolio ripetuto delle antine di entrata. Il tumbler colmo di whisky sta già scivolando sul bancone del saloon. La mano veloce del pistolero lo blocca. Il liquore tracima e si sparge sul legno mentre lui, con il capo all’indietro, ne ingolla un lungo sorso. Il delicato liquore che l’agente segreto versa, da raffinate bottiglie di vetro molato, mentre si intrattiene piacevolmente con avvenenti partner.
Incontriamo spesso i liquori come attori non protagonisti di moltissimi film di genere: dal western, al poliziesco, allo spionaggio d’antan.
Il vino no. La sua partecipazione alla finzione filmica è sempre stata abbastanza sporadica. Come se ci fosse una sorta di pudore a mostrarlo, oppure non lo si considerasse interessante da un punto di vista culturale e nemmeno come immagine quotidiana da tratteggiare per i suoi contenuti di convivialità e di tradizione.
Ma il vino ha da sempre assunto in altre forme artistiche un significato simbolico, allegorico dei diversi stati d’animo umano: dalla felicità e gaiezza fino ai tormenti e alla perdita del controllo di sé.
Il vino ha una ricchezza interpretativa che il mondo cinematografico ha utilizzato abbastanza poco.
Tuttavia alcune inquadrature meritano di essere ricordate. Negli anni ’70 alcuni graffianti film italiani lo hanno usato per rafforzare un’immagine di un mondo popolare grezzo da cui si voleva scappare, ma dal quale si proveniva, per dirigersi verso una società votata al consumismo più sfrenato. È il caso de La grande abbuffata di Marco Ferreri (1973) e dei Brutti, sporchi e cattivi di Ettore Scola (1976).
Film che sferzavano una società in rapido cambiamento – si pensi all’abbandono delle campagne ed all’inurbamento industriale dell’epoca – per stimolarle al miglioramento o, almeno, alla presa di coscienza.
E in quel tempo, nonostante la Legge 930 del 1963 e la presenza consolidata di alcuni vini storicamente di classe, la nostra produzione enologica si dibatteva ancora alla ricerca della propria identità.
Divertente e un po’ guascone, ma con attori di tutto rispetto, appare Il segreto di Santa Vittoria di Stanley Kramer (USA, 1969). Ambientato in Piemonte, nella seconda guerra mondiale, il film narra di come fu nascosto un milione di bottiglie di vino per sottrarlo alle truppe tedesche in ritirata. Il vino è inteso come prezioso elemento identitario e culturale da difendere e conservare per un futuro migliore. Sulla stessa dimensione, sebbene con un’immagine meno neorealista e più patinata, troviamo Il profumo del mosto selvatico di Alfonso Arau (USA, 1995). In questo caso è la radice della pianta capostipite, ancora viva dopo un pauroso e poco credibile incendio dell’intera azienda viticola – allegoria del conflitto famigliare in atto - ad assicurare un futuro nel magico tramonto in controluce della California del Sud.
Sulle note dell’intrigo internazionale e amoroso si gioca la commedia avventurosa de L’anno della cometa di Peter Yates (USA, 1992), in cui tutto ruota intorno alla scoperta di una preziosa bottiglia di Chateau Lafitte del 1811. Qui il vino assume un ruolo di protagonista per il valore economico – ma anche simbolico - che i grandi cru francesi hanno saputo conquistarsi in tutto il mondo. Poco significativa invece la presenza del vino in altri due film che pure lo evocano nei titoli, Blood and wine di Bob Rafelson (USA, 1996) e Mala uva di Javier Domingo (Spagna, 2003).
Più intrigante l’approccio al vino in Sideways di Alexander Payne (USA, 2004), dove due amici percorrono le valli meno note della viticoltura californiana, assaggiando vini e abbinandoli a riflessioni sulla loro vita: “Il vino è un essere vivente, quando prende vita è esuberante e col tannino ruvido, poi si ammorbidisce, si evolve e dà il meglio di sé fino ad un’inevitabile decadenza”.
Avvicinando le peculiarità produttive e sensoriali dei Pinot e dei Cabernet ai profili caratteriali dei protagonisti. Ancora la vigna ed il vino come occasione per cambiare vita, o per cercare il senso della propria vita, sono il filo conduttore di A good year – Un’ottima annata di Ridley Scott (USA, 2006), una commedia prevedibile ma solare, immersa nei colori della campagna provenzale. Di tutt’altro stile invece è Mondovino di Jonathan Nossiter (USA, Francia, 2004), un film-documentario costruito con immagini e interviste a vignaioli e imprenditori vitivinicoli, a consulenti enologi e critici del vino, riprese in tutto il mondo e con un taglio “da inchiesta”. Il mondo del vino ne risulta spezzato in due, tra i winemakers globalizzanti ed i piccoli produttori ancora affezionati alle loro terre e alle loro tradizioni. Un documentario duro che confronta la viticoltura europea, anche normativamente più legata al territorio, con quella extraeuropea più orientata al mercato. Ma in questo apparente dualismo compaiono criticamente anche i “vins de garage”, piccole produzioni realizzate nei più pregiati terroir francesi da rinomati enologi e vendute a prezzi elevatissimi, che sembrano più vicine alla tendenza enologica americana che a quella comunitaria. Ed il vino non ha più immagine e cuore, storia, cultura, tradizione ma sembra solo in balia di consulenti, giornalisti, manager e strategie commerciali. L’interpretazione cinematografica del mondo viticolo ed enologico appare quindi ancora limitata e frammentata, tuttavia un elemento emerge chiaramente: i wine movies, ossia la prevalenza dei film statunitensi sul tema. Le realtà vitivinicole di più recente storia e tradizioni hanno saputo o hanno avuto il coraggio di inserire il vino nel linguaggio cinematografico molto di più di quanto non sia accaduto nel nostro continente.
Sarebbe viceversa stimolante tradurre la cultura europea del vino, profondamente immersa nelle nostre tradizioni ed abitudini alimentari, in forme artistiche e comunicative che usino le forme ed i tempi del cinema.