L'ANGOLO DELLA VIGNA
Vitigno o territorio? |
Annoso dualismo quello della scelta del vitigno o del territorio
per la promozione, la tutela, la presentazione di un vino
sul mercato. Le due visioni, tradotte in azioni concrete, hanno
determinato impostazioni molto diverse nell’ambito del marketing
delle singole imprese, di regioni, di intere nazioni.
In Paesi orientati a difendere una tradizione vitivinicola prestigiosa,
come la Francia, è stato sempre chiaro fin dall’inizio
che il territorio fosse l’elemento
cruciale della promozione e della
tutela: dalla regione più ampia, al
villaggio, al singolo cru. Il messaggio
promozionale era in tal caso
meno immediato (soprattutto
quando si trattava di piccoli territori
senza né arte né parte), più
complicato, quasi per iniziati, ma
aveva il pregio di puntare su di un
bene assolutamente irripetibile (il
terroir), che per questa via poteva
a sua volta esser promosso con il
vino.
Filosofia del tutto opposta è
stata quella dei Paesi di nuova viticoltura:
si è partiti addirittura
dalla tipologia di vino (Port,
Sherry, Claret) per giungere al
vitigno, che già pareva un messaggio
raffinato. Del resto quelle viticolture
si basavano (e ancora in
gran parte si basano) su pochi vitigni
che tutti conoscono, mentre i
territori impiantati a vite, tranne
qualche eccezione, non avevano
né storia né tradizione. Per la
verità le cose stanno cambiando anche lì rapidamente e la classificazione
nonché la tutela dei singoli territori si sta affermando
fortemente, ma il vitigno rimane sempre fondamentale,
tanto che accanto ai vitigni internazionali, quelli che hanno
tutti, si sta puntando su piccole bandiere locali di unicità, come
lo Zinfandel in California, il Malbec in Argentina, il Pinotage in
Sud Africa.
Come si posiziona l’Italia sotto questo profilo? Il sistema da
noi è stato per lo più misto: siamo i maestri di “un colpo al cerchio
e uno alla botte”. Dolcetto di Dogliani e Barolo, Vernaccia
di S. Gimignano e Chianti, Franciacorta e Primitivo di
Manduria. Una bella confusione. Però, a vero dire, la “filosofia”
del territorio col tempo ha giustamente preso il sopravvento.
Perché i vitigni viaggiano, e un giorno son qua e un giorno
potrebbero esser là, qui si chiamano in un modo e là, magari
senza che lo sappiamo, hanno un altro nome. Mentre il territorio,
con i suoi paesaggi, le sue opere d’arte, la sua gente, sta
sempre lì. Magari si imbruttisce, in certi casi si fa più bello e più
organizzato, ma di certo è sempre
lì. Non tradisce, come ha fatto per
esempio quel Tocai: come gli è
venuto in mente di prendersi un
nome fonte di così tanti guai?
Però noi italiani ai nostri vitigni
non vogliamo rinunciare
(anche se abbiamo cominciato a
rassegnarci, per così dire, alla
supremazia del territorio) e così,
in certi casi, ce li teniamo ben
stretti: giù le mani dal Sagrantino,
il Prugnolo è solo toscano, ma
come vi permettete di fare
Nebbiolo fuori dall’Italia? I nostri
autoctoni, come noi chiamiamo i
nostri vitigni tradizionali che
magari autoctoni non sono per
niente, sono un patrimonio nazionale,
una garanzia di qualità e di
unicità, li vogliamo tutelare e proteggere.
Però abbiamo stabilito
che bastano 50 anni di coltura in
un determinato territorio per
definire un vitigno “autoctono”
di quel territorio, col che molti
vitigni sono autoctoni quasi
dovunque e quasi dovunque, pertanto, tutelabili. E per di più la
nuova OCM ci scombina le carte, ammettendo il nome del vitigno
in etichetta per i vini da tavola, i più comuni, i più anonimi
(quelli, appunto, che vorremmo lasciare anonimi per il vitigno).
E in effetti, non siamo in grado di garantire il vitigno quando è
stabilito per disciplinare nelle d.o., figuriamoci se il disciplinare
non c’è.
Forse, dovremmo cominciare a garantire che il vitigno previsto
sia effettivamente nella bottiglia, e provenga effettivamente
dal territorio previsto: è un buon punto di partenza per una
buona promozione.