L'OPINIONE DEL PRESIDENTE
di Moreno Soster

AVERE O ESSERE UNA DOC?

Quotidianamente ci confrontiamo con la parola DOC. Ed è stupefacente osservare come un termine così specifico sia uscito dal circuito degli addetti ai lavori per dilagare nel lessico comune ad esprimere la qualità in senso lato.
D’altra parte fin dai suoi esordi, la denominazione d’origine ha assunto un compito attivo e altamente positivo di limitare le frodi e le turbolenze di mercato nel settore vitivinicolo.
Dare certezza al commercio e al consumo circa l’identità del vino, ed evitare le ricorrenti crisi dei prezzi generate dall’alternanza produttiva dovuta agli andamenti climatici (annate), sono stati i primi obbiettivi che si sono poste le normative sulle DOC degli inizi del secolo scorso. Ma questa valenza positiva per il consumatore e per il mercato riverbera anche sui produttori: la DOC implica la definizione, o meglio, la demarcazione di un territorio che esprime una propria differenziazione e distinzione rispetto a quello circostante, migliorando le performance del capitale che su di esso insiste. Comunemente si dice che un accordo è buono se accontenta tutte le parti e probabilmente le denominazioni hanno avuto questo pregio, basti pensare che oggi solamente nell’Unione Europea abbiamo 1341 vini a denominazione d’origine e 588 a indicazione geografica.
L’Italia, da parte sua, ha colto l’opportunità dell’uso delle denominazioni e l’ha sviluppata in un percorso che schematicamente possiamo suddividere in 3 fasi: gli albori, gli anni 1960-90 e quelli dal 1992 ad oggi.
Come nel resto d’Europa, e per i motivi indicati in precedenza, anche in Italia a cavallo tra l’800 e il 900, si inizia a sentire la necessità di demarcare le zone vitate più rinomate.
Si arriva così ai primi decreti ministeriali degli anni ’30: è il caso, per esempio, del Moscato d’Asti-Asti Spumante (16 ottobre 1931) o del Chianti classico (31 luglio 1932). Ma è con l’applicazione della Legge n. 930 del 1963 che l’approccio alle denominazioni avviene in forma ampia e sistematica: in questo periodo la viticoltura italiana trasforma una potenzialità enorme ma disordinata, ancora legata ad abitudini colturali e commerciali antiche, in un settore economico moderno.
Il successo di questa fase, ancora prevalentemente ancorata alle aree di più consolidata e tradizionale produzione, comporta una progressiva e sempre più complessa espansione delle denominazioni, sostenuta da una costante crescita del prezzo al consumo per i vini a DOC, nonché dalle richieste di un mercato in evoluzione che consuma sempre meno vino ma predilige un prodotto con caratteristiche qualitative elevate.
Si giunge quindi al 1992, con la Legge n. 164 che cerca di riordinare il sistema attraverso la cosiddetta “piramide DOC”, uno schema teorico che da una parte evidenzia una gerarchia delle denominazioni (vini da tavola, IGT, DOC, DOCG, sottozona e vigna) e dall’altra orienta verso un sempre maggior legame tra il vino e l’ambiente naturale ed umano di origine.
In questa fase si sviluppano i meccanismi di ricaduta tra denominazioni primarie e quelle di base, si tutelanonuovi territori viticoli – meno famosi ma con interessanti potenzialità, si articolano maggiormente le denominazioni storiche attraverso la definizione di sottozone e l’uso delle menzioni aggiuntive.
A conclusione, per ora, di questo percorso l’Italia vanta oggi 412 vini a denominazione d’origine e 120 ad indicazione geografica (Fonte: e-bacchus, 2009).
Fin qui il passato, ma quello che mi sta a cuore è parlare del futuro. Il contesto normativo e socio-economico attuali ci impongono una seria riflessione al concetto di denominazione d’origine.
Ritengo opportuno chiarire il piano ideale per dare seguito, poi, alle iniziative operative. Disegnare la strategia, per poi realizzarla.
La sensazione è che troppo spesso si ragioni in termini di “avere una denominazione” piuttosto che di “essere una denominazione”.
Si pensa di “avere una denominazione” quando ci si concentra molto sugli aspetti regolamentari del disciplinare ai fini di tutela del produttore piuttosto che di evoluzione del prodotto, si demarca il territorio per i suoi effetti sul capitale economico piuttosto che per le sue valenze viticole, si sentono come una costrizione esterna ed inopportuna i doverosi controlli.
Ma io mi augurerei che l’Italia vitivinicola guardasse al futuro pensando a come si possa “essere una denominazione”.
Chi sente questo sa che un vino a DOC è solamente quello che è figlio di quella zona di origine, veramente. Una zona che è prima di tutto un ambiente fisico naturale con i suoi pregi ed i suoi difetti che devono essere conosciuti, compresi e tradotti con un lungo lavoro di osservazione ed esperienza affinché possa dare sempre il vino migliore possibile.
Una zona che è una famiglia di produttori che è consapevole del valore di un lavoro coordinato a sostegno di un marchio collettivo, orgogliosa delle proprie specificità (i vitigni autoctoni,per esempio) e coraggiosa nel sapersi reinventare ogni volta che l’avanzamento delle conoscenze lo consente, pur restando coerente con le origini.
Chi sente così sa che una denominazione non è solo un vino da vendere sempre a caro prezzo, ma un lavoro appassionato, fatto con il rispetto per l’ambiente naturale di produzione e per le persone che contribuiscono alla sua realizzazione.
Un rispetto che si allarga al paesaggio e alle forme culturali originali, dai quali attingere per la necessaria promozione. Essere DOC è cercare di produrre non solo un vino che risponda al disciplinare, ma farlo buono e proporlo in abbinamento con il cibo realizzato a partire sempre dalle potenzialità e specificità di quel territorio.
E poi vendere il vino per quello che è: un prodotto che è ottenuto a cielo aperto e che non può essere sempre lo stesso. Anche nel prezzo.
Solamente così il concetto di origine torna ad acquisire il suo posto nella tutela fornita da una DOC: un vino buono, che si distingue, non inganna il consumatore, che nasce dalla terra e dal cuore.