L'ANGOLO DELLA VIGNA
Quale nome per la Malvasia bianca di Piemonte? |
Quante sono le Malvasie coltivate nel mondo?
Una settantina, secondo uno studio di Lacombe e collaboratori,
sono le accessioni conservate nella grande collezione
di Vassal contenente viti di ogni dove. Dando uno sguardo alle
sole Malvasie italiane, troviamo ben 17 cultivar distribuite
lungo tutta la penisola elencate nel Registro delle varietà. E
anche se questo numero si riduce per lo meno a 14 eliminando
quelle “ridondanti” (registrate cioè con nomi diversi ma in
seguito accertate come sinonimi), rimane pur sempre un
gruppo consistente che fa dell’Italia,
potremmo dire, il “Paese delle
Malvasie”. A maggior ragione se si
aggiungono alle 14 ufficialmente riconosciute
altre numerose cultivar locali,
sempre denominate Malvasia, non ancora
inserite nel Registro perché di recente
recupero o perché di modesta importanza
colturale. Se alcune di queste è
possibile siano chiamate Malvasia per
errore (basti pensare a una cosiddetta
Malvasia nera recuperata in Liguria,
risultata poi Moscato d’Amburgo),
molte sono vitigni con unica e precisa
identità ed altrettanto precisi riferimenti
storici.
Tra questi vi è la Malvasia bianca di
Piemonte, una cultivar che compare con
questo nome nella maggior parte delle
ampelografie ottocentesche, alcune
delle quali transalpine. Questi testi storici
ne segnalano non solo il valore enologico,
ma anche la rilevante consistenza colturale in
Piemonte prima che il Moscato bianco, parrebbe a seguito
della crisi oidica, guadagnasse rapidamente terreno. La situazione
attuale nella regione vede la Malvasia bianca rimanere
presente come piante sparse o al più qualche esiguo filare nei
vigneti storici di molte aree, anche distanti fra loro, a testimonianza
dell’ampia diffusione nel passato. L’abbiamo recuperata
nell’Alessandrino, nell’Astigiano (sia a nord che a sud del
Tanaro), nel Chierese, nel Roero, nel Pinerolese e perfino nel
nord Piemonte. Quanto ai sinonimi, i più comuni sono quelli
di Malvasia greca, di Greco o Moscato greco, di Moscatella,
fantasioso quello di Mosella, che ci ha segnalato Stefano
Raimondi insieme a quello popolaresco di Caccarella, dovuto,
vien da pensare, alla polpa deliquescente.
Le descrizioni riportate nelle ampelografie ottocentesche
si adattano perfettamente ai caratteri della cultivar che osserviamo
oggi, tanto che non vi è dubbio si tratti dello stesso vitigno.
Se risaliamo a riferimenti storici precedenti vi è ovviamente
minor certezza, ma non di meno ci pare di intravedere
questa stessa varietà nella “Malvasia similmente nostrale” di G.
Battista Croce che, annoverandola all’inizio del 1600 tra le
uve bianche “della montagna di Torino”, riporta che “fa l’uva
longa, e folta, con grani longhi: è buona da mangiare, e da far
vino, qual riesce dolce, e del sapore dell’uva”.
Si tratta di un netto sapore
moscato, gradevolissimo.
Nell’ambito di prove sperimentali
per la valutazione dei vitigni minori e
rari piemontesi questa Malvasia, che chi
scrive ha ritrovato anche in California
probabilmente introdottavi da emigranti
originari della nostra regione, ha dimostrato
qualità colturali ed enologiche
pregevolissime. Vi è pertanto tutta
l’intenzione, dato anche l’interesse di
alcuni produttori, a riproporne
l’utilizzo. Com’è noto occorre che la
cultivar sia iscritta nel Registro delle
varietà e compresa tra quelle idonee alla
coltura.
E qui viene il bello. La documentazione
necessaria è stata preparata, ma
come chiamare il nostro vitigno?
Malvasia bianca, il nome della cultivar in
California, è già stato assegnato ad
un’altra Malvasia del Registro italiano. Malvasia bianca di
Piemonte, l’appellativo “storico”, è bandito perché la linea
ministeriale (su questo estremamente rigida) non ammette
riferimenti geografici. Malvasia greca, Moscato greco? Non vi
sono altri Moscati greci nel Registro, ma vi è tutto un drappello
di Moscati e di Greci: non si rischia di far confusione? Il
conte di Rovasenda segnalava anche Malvasia gialla, ma è
nome per nulla usato attualmente. Lasciamo perdere Mosella,
per ovvi motivi.
La discussione è aperta e porta a riflettere su come la
denominazione dei vitigni, su cui poi spesso si fonda la promozione
e l’affermazione di un vino, è questione complicata,
piena di vincoli, insidie e trabocchetti. E la nostra Malvasia
piemontese? Non ce la farete chiamare Caccarella!