L'OPINIONE DEL PRESIDENTE
di Moreno Soster

L’etichetta, volto del vino

Un negozio di dischi trent’anni fa.
A parte i piccoli e minoritari 45 giri, che erano prodotti da juke-box o da mangiadischi portatili, il disco vero era il 33 giri.
Entravi e li trovavi ordinati, nelle loro buste quadrate di cartoncino incellofanato, in mobili larghi, orizzontali, a scansie successive. Un ipotetico piano cartesiano musicale con gli autori in ascissa e la loro produzione cronologica in ordinata.
Le dita scorrevano veloci sulla costa superiore e iniziava la sarabanda delle immagini delle copertine. Si, perché nonostante uno avesse nel cuore le proprie preferenze e in mente un titolo da acquistare, il fascino della copertina spesso ti spingeva a comprare quel disco perché ti evocava delle buone sensazioni. Il messaggio visivo esterno, corroborato dalla lettura dei titoli, degli strumenti musicali utilizzati e dei luoghi della registrazione, ti invitavano irresistibilmente a scoprire la musica al suo interno.
Oggi mi capita di rivivere le stesse sensazioni quando mi ritrovo in un’enoteca o in un supermercato, davanti agli scaffali in cui ben ordinate sfilano le bottiglie di vino, ormai tutte uguali nella forma, con la bordolese che ha preso il sopravvento e qualche borgognotta (in Piemonte l’albeisa), la renana o l’anfora che spuntano qua e là. Ma di fronte a questo muro, apparentemente uniforme, di nuovo sono colto da differenti sensazioni che mi spingono ad allungare la mano su questa o quella bottiglia.
Non posso negare che per me il fascino dell’etichetta è assolutamente paragonabile a quello della copertina dei dischi che compravo un po’ di tempo fa. L’etichetta per una bottiglia di vino è molto più di un semplice accessorio informativo, una parte dell’abbigliaggio attaccato per necessità commerciali o normative. Una vera etichetta ci fa sentire il vino che la bottiglia custodisce, come una vera copertina ci faceva sentire il long playing prima della puntina.
Le prime etichette comparvero nella metà del ’700, qualche tempo dopo che la nascita delle bottiglie e l’imbottigliamento del vino avevano evidenziato la necessità di dare un’identità al contenitore ed al suo contenuto. Le prime erano semplici, stampate a torchio, e riportavano il nome del vino e quello del produttore (talvolta l’annata). Poi con il tempo si sono arricchite sempre di più, grazie all’evoluzione della tecnica grafica e dei materiali.
Nell’Ottocento si afferma la cromolitografia che consente contorni più netti, maggiori sfumature e colori più brillanti. In un mondo di vino venduto sfuso e la qualità è garantita dalla fiducia nel fornitore, la bottiglia – fragile e costosa - rappresenta l’eccellenza, il prodotto di status. E la nobiltà del vino e del suo consumatore è ribadita in etichetta dalla comparsa di corone e simboli araldici. Alla fine dell’800 sono le esposizioni universali ed i concorsi a garantire i pregi enologici attraverso l’assegnazione di medaglie al merito, puntualmente allineate sulla bottiglia come quelle appuntate sulle uniformi militari. Il secolo breve si apre con la novità della fotografia, uno strumento straordinario di comunicazione ma non per le nostre etichette, che ne fanno sempre un uso molto limitato. L’immagine proposta non deve avere necessariamente la precisione fotografica, ma deve suggerire, tratteggiare, evocare.
Il messaggio è affidato al disegno, al bozzetto, ai giochi di colore, uniti alla scelta del carattere tipografico. Così i vini austeri, blasonati e di alto lignaggio in genere utilizzano caratteri sobri, nitidi, eleganti con poco o nessun colore. Non devono proporsi ma conservare uno status. Mentre quelli più giovani e freschi giocano la carta dell’acquarello, dello stile naif con caratteri accattivanti, ammiccanti.
Per disegnare e comunicare un diverso stile di consumo e di vita. In alcuni Paesi, specie quelli di nuova viticoltura, l’etichetta diventa invece l’occasione per illustrare l’origine geografica attraverso immagini di specie animali autoctone che uniscono l’appeal visivo dell’animale alla sua endemicità che lo lega a un territorio: il Sudafrica usa molto gli elefanti, l’Australia i canguri, alcuni Paesi africani i cammelli. Il desiderio dei viticoltori di distinguersi e la creatività dei grafici hanno arricchito le etichette dei più svariati soggetti, oltre un centinaio di tipologie diverse, ma di queste alcune tornano con maggiore frequenza: i paesaggi, i castelli, i fiori e gli animali. Altre sono più rare come le immagini sportive o quelle della automobili, in genere utilizzate per specifiche forniture e legate ad eventi puntuali (competizioni agonistiche, mostre, saloni espositivi, ecc.). È evidente che dalla loro nascita ad oggi le etichette del vino hanno arricchito il loro contenuto informativo e di garanzia con una maggiore attenzione al messaggio comunicato, hanno seguito le mode e sono diventate sempre più uno strumento di marketing enologico. Quello che mi preme sottolineare è che non possono svolgere al meglio la loro funzione se non sono ragionate coerentemente al contenuto della bottiglia alla quale sono attaccate.
Non esiste l’etichetta giusta per tutti i vini, ma ogni vino ha la sua giusta etichetta. Quella che, al primo sguardo, ti attrae ed affascina, ma al tempo stesso ti comunica correttamente il vino che cela, lasciandoti la curiosità di assaggiarlo. Perché le etichette possono piacere, ma non si bevono.